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Che cos’è?
Obiettivo della “Blackout Challenge” è quello di sfidare gli utenti a trattenere il respiro per il maggior tempo possibile, resistendo di solito con una cintura o un laccio stretti attorno al proprio collo, per sperimentare sensazioni simili alla perdita di conoscenza. Comportamenti caratterizzati da un’intrinseca pericolosità di trovare la morte per asfissia.
Ed è quanto avvenuto in diversi casi in tutto il mondo.
A gennaio 2021, una ragazzina di Palermo di appena 10 anni è deceduta dopo aver utilizzato una cintura di un accappatoio per privarsi del respiro, probobabilmente per poi pubblicare un video sui social. Sui fatti indaga la procura dei minori che ha aperto un fascicolo per “istigazione al suicidio” a carico di ignoti.
A fine marzo 2021, una dodicenne a Borgofranco di Ivrea (Torino), è stata ritrovacata impiccata ad una mensola con la cintura di un accappatoio. Anche il tal caso le indagini non hanno trascurato l’ipotesi che si potesse trattare di una sfida social finita male.
Questi casi hanno acceso un riflettore sul vuoto di tutela nell’ambito del digitale e in particolare per quanto riguarda i social network, come dimostra anche l’intervento del Garante Privacy che mira a colmarlo.
Blackout challenge e l’ istigazione al suicidio: la decisione del Gip di Milano
Il caso è legato alla morte nel 2018 di un 14enne di Milano trovato impiccato nella sua stanza con una corda alla traversa del letto a castello. Dalle indagini dei carabinieri, era emerso come, poche ore prima, il giovane avesse visualizzato dei video su Youtube che descrivevano alcune pericolosissime pratiche (challenge) messe in atto dai ragazzi al fine di riprendersi e postare i video sulla rete, tra cui la c.d “sfida del blackout” basata sulla volontaria adozione di tecniche di soffocamento, finalizzate a provocare transitoria perdita di coscienza, per poi risvegliarsi in uno strato di ebbrezza.
Sul registro degli indagati erano finiti i titolari di due canali Youtube sui quali, rispettivamente, erano stati caricati il video visionato dal ragazzo e un altro che menzionava e discuteva del fenomeno della sfida del blackout.
Niente istigazione al suicidio: prove insufficienti a sostenere l’accusa
Per il G.I.P. non si rinvengono sufficienti principi di prova per sostenere l’accusa in giudizio, in primo luogo per difetto di dolo, anche solo generico, di far sorgere, rafforzare o agevolare il proposito suicidiario nella indistinta platea degli utenti della rete internet, potenziali destinatari del video.
Il G.I.P. evidenzia come i video non appaiano affatto finalizzati a incentivare l’emulazione delle sfide e come gli autori ne avessero più volte ribadito la pericolosità e invitato a non sperimentare mai alcuno dei “giochi” illustrati in quanto pericolosi.
Inoltre, in secondo luogo, difetta anche la prova della sussistenza del fatto, non essendo integrati gli elementi costituivi della condotta come descritti dal legislatore ex art. 580 del c. p.: nel caso di specie la volontà suicidiaria non è mai esistita nel ragazzo, non è mai stata determinata, né agevolata, né rafforzata.
L’intento del ragazzo, come puntualmente ricostruito dagli inquirenti, “era in buona sostanza non quello di privarsi della vita, ma di cimentarsi nella sfida del soffocamento per provare l’ebbrezza dello svenimento per pochi minuti”, come prevede la Blackout Challenge, e dunque “non può dirsi che una volontà suicidiaria sia mai appartenuta al minore, né tantomeno che egli abbia posto in essere un’azione volta a concretizzarla”.
È configurabile l’omicidio colposo?
Per il G.I.P., inoltre, non è integrata neppure l’ipotesi di omicidio colposo ex art. 580 c.p. non essendo configurabili “né profili di colpa della condotta degli indagati – o di altri soggetti responsabili del sito su cui i video per cui è processo sono girati – né la sussistenza di un nesso di causalità tra eventuali condotte (anche omissive ed eventualmente qualificabili come negligenti imprudenti o imperite o inosservanti di leggi, regolamenti, ordini e discipline) e l’evento morte come si è concretamente verificato”.
Gli autori del video, precisa il decreto di archiviazione, hanno spiegato con estrema chiarezza la natura assolutamente rischiosa delle condotte descritte e formulato numerosi avvertimenti sia verbali, sia sotto forma di immagini, proprio per rendere accorti gli utenti sulle conseguenze pregiudizievoli nell’emulare simili comportamenti.
Si ritiene si sia trattato dunque di una tragica finalità, avendo gli indagati agito come “cronisti” in relazione a una pratica descritta come pericolosa nei loro video. Il provvedimento del G.I.P. di Milano, in eventuali analoghe situazioni, potrebbe porsi come un importante precedente.
Nessun illecito amministrativo per la piattaforma
In ultima battuta, il Giudice si sofferma anche sulla posizione di Youtube, ritenendo che a carico della società non sia individuabile alcun illecito amministrativo, con riferimento all’adeguatezza delle procedure aziendali adottate da Yotube LLC (Google LLC) e delle “regole della community”, tema attuale e dibattuto.
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